Ioni negativi più comuni e loro nomi

anioni_tav_periodica     In due precedenti post è stata descritta la formazione degli ioni in generale e gli ioni positivi (cationi) più comuni con i relativi nomi. In questo post vengono descritti gli ioni negativi (anioni).

     Gli ioni negativi costituiti da un solo atomo (monoatomici) derivano dagli atomi degli elementi non metallici. Vengono denominati aggiungendo il suffisso -uro al nome dell’elemento, per cui abbiamo lo ione fluoruro (F ), lo ione idruro (H ), lo ione solfuro (S2- ), lo ione nitruro (N3- ), lo ione fosfuro (P3- ), lo ione cloruro (Cl ) e così via. Tra questi ioni monoatomici però, lo ione ossido (O2- ) costituisce un’eccezione nella nomenclatura.

     Gli ioni negativi poliatomici sono formati da più atomi e in genere si formano quando gli ossoacidi in acqua perdono ioni idrogeno (H+ ). Questi anioni prendono il nome dall’ossoacido da cui derivano, ad esempio lo ione nitrato (NO3) si può ottenere dall’acido nitrico (HNO3 acido triossonitrico, secondo la nomenclatura IUPAC) per perdita di uno ione idrogeno (H+ ): HNO3 (H2O)→ H+ + NO3 .

     Gli anioni inoltre presentano una carica negativa per ogni idrogeno perduto: lo ione idrogeno solfato (HSO4 ) ha perso un solo ioni idrogeno (H+ ) rispetto all’acido tetraossosolforico (H2SO4 ); mentre lo ione idrogeno fosfato (HPO42- ) ha perso due ioni idrogeno (2H+ ) rispetto all’acido tetraossofosforico (H3PO4 ).

     Nella nomenclatura tradizionale, se il non metallo presenta solo due tipi di ossoacidi, il nome dell’anione si ottiene cambiando il suffisso -oso in -ito e il suffisso -ico in -ato.

     Bisogna ricordare che gli ioni H+ prodotti dall’acido che si trova in soluzione acquosa, colorano alcuni pigmenti, ad esempio il tornasole, che vengono detti “indicatori” e permettono di determinare con buona approssimazione il grado di acidità della soluzione. Per una determinazione più precisa è necessario uno strumento: il piaccametro. Crediti immagine anioni_tav_periodica: Unica.it. Tab-anioni più comuni

Ioni positivi più comuni e loro nomi

Tab_cationi              In passato su questo blog è stato già trattato l’argomento della formazione degli ioni, sia positivi (cationi) che negativi (anioni). Ricordo che uno ione è una particella carica elettricamente. Negli ioni monoatomici, il numero di ossidazione dello ione è uguale al numero di elettroni ceduti o acquistati da un atomo dell’elemento per formare lo ione, perciò tale numero coincide con la carica dello ione.

     In questo post mi occupo del nome dei cationi più comuni, distinguendo tra i metalli che formano un solo tipo di ione (a) e quelli che formano più di un tipo di ione (b).

a. I metalli dei gruppi 1A, 2A, 3A, formano un solo tipo di ione e la carica positiva degli ioni è uguale al numero del gruppo di appartenenza. Il nome si ottiene semplicemente facendo precedere il termine “ione” al nome del metallo. Perciò, K+ è lo ione potassio, Ca2+ è lo ione calcio, ecc.

b. I metalli che formano più di un tipo di ione, vanno distinti e per questo si usano i simboli della nomenclatura di Stock, proposta da Alfred Stock (1876 – 1946) e ammessa dalla IUPAC. Per di distinguere due ioni dello stesso metallo, provvisti di carica differente, al nome dello ione si fa seguire tra parentesi un numero romano che corrisponde alla carica dello ione. Ad esempio, il ferro forma due tipi di ioni: Fe2+, ione ferro (II) e Fe3+, ione ferro (III); il piombo può formare lo ione piombo (II) Pb2+ oppure lo ione piombo (IV) Pb4+ e così via anche per altri ioni. Gran parte dei metalli che formano più di un tipo di ione appartengono agli elementi di transizione.

     Nella nomenclatura tradizionale invece, si fa uso dei suffissi “-oso” ed “-ico” al nome dell’elemento metallico per indicare rispettivamente la carica minore e quella maggiore: Fe2+, ione ferroso; Fe3+, ione ferrico.

 Tab-cationi più comuni  Nella tabella a sinistra sono riportati i cationi più comuni con i relativi nomi. Segnalo alcune particolarità: lo ione ammonio (NH4+) è uno ione poliatomico costituito da atomi di non metalli; lo ione mercurio (I) esiste come coppia di atomi (Hg22+); lo ione rame (I) Cu+ si trova in soluzione acquosa.

L’ISTITUTO DI FISICA DEL PLASMA DEL CNR

Quest’anno, Anno Internazionale della Tavola Periodica, Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha sancito la nascita dell’Istituto per la Scienza e Tecnologia dei Plasmi (ISTP) in cui sono confluite diverse altre istituzioni di ricerca di Milano, Padova e Bari.
Quali sono i campi di ricerca del nuovo istituto che rimane articolato nelle tre sedi indicate sopra?
– Fusione termonucleare controllata;
– Progettazione, realizzazione e operazione di impianti per la fusione termonucleare;
– Plasmi di bassa temperatura e loro applicazioni;
– Plasmi per aerospazio;
– Plasmi astrofisici e plasmi spaziali;
– Interazione dei plasmi con fasci di particelle, radiazione elettromagnetica e materiali e relative applicazioni tecnologiche;
– Interazione laser-plasma e fisica dei plasmi in condizioni estreme.
Sul sito inoltre viene definito con chiarezza cos’è il plasma, questo quarto stato della materia, poco diffuso sul nostro pianeta ma forma il 99,9% della materia visibile (non dimenticare che esiste anche una materia “oscura”) dell’Universo.

“Cosa definisce lo stato di plasma? Un plasma è un gas ionizzato costituito da una miscela quasi-neutra di elettroni liberi, ioni (atomici o molecolari) e specie neutre interagenti tra di loro. Al crescere della temperatura la materia si trasforma, cambiando il suo stato di aggregazione. Il plasma può essere considerato il quarto stato della materia, oltre allo stato solido, liquido e aeriforme; si ottiene fornendo alle molecole di un gas, a una data pressione, energia termica sufficiente a dissociare le molecole e ionizzare gli atomi e le molecole del gas stesso. La transizione tra stato gassoso e plasma non può però essere considerata una transizione di fase in senso termodinamico perché avviene gradualmente all’aumentare della temperatura. Stati_materia_plasma

Il 99.9% della materia visibile nell’Universo si trova allo stato di plasma: l’interno delle stelle, lo spazio interstellare (…), ionosfera, aurore boreali (…), fulmini, fiamme. Ai plasmi presenti in natura si aggiungono quelli generati in laboratorio: tubi al neon, sfere al plasma, archi elettrici, scariche a radiofrequenza per applicazioni industriali, fino ai plasmi ad altissime temperature per le ricerche sulla fusione termonucleare controllata.
Esiste inoltre una categoria di plasmi in cui tra i costituenti ci sono anche piccoli aggregati di materia solida (di dimensioni variabili dai nanometri ai millimetri) che si caricano negativamente per effetto della maggior mobilità degli elettroni rispetto agli ioni. Sono questi i “dusty plasma” la cui dinamica è caratterizzata dal fatto che la carica elettrica dei granelli di “polvere” varia rapidamente nel tempo: tra questi plasmi possiamo annoverare quelli che costituiscono le comete, gli anelli dei pianeti, le nebulose, le fiamme, ma anche quelli che si producono durante le eruzioni vulcaniche, gli aerosol atmosferici, le sabbie desertiche trasportate dal vento e la cosiddetta “neve carica”. La presenza di polveri è documentata anche nei reattori a fusione termonucleare e in reattori destinati a processi industriali. 

Da dove deriva il termine “plasma”? Il termine “plasma” fu utilizzato per la prima volta nel 1927 dall’americano Irving Langmuir, vincitore del premio Nobel per la Fisica, per indicare un gas ionizzato il cui comportamento è assimilabile a quello di un fluido che trasporta elettroni, ioni e impurezze. Il termine gli fu suggerito dall’analogia con il plasma sanguigno, termine introdotto nel secolo precedente dal medico ceco Purkinje per indicare il fluido che trasporta globuli bianchi, globuli rossi e sostanze nutritive.” Crediti: https://www.ifp.cnr.it/ . Vedi anche: Fusione nucleare: Dalle stelle alla Terra; Il plasma (5B, Liceo Scientifico Tecnologico “G. Natta” BG). Video Marco Coletti.

Elettrolisi in soluzione acquosa

elettrolisi_NaCl_acquosa-300x266     L’elettrolisi è una reazione chimica di decomposizione che interessa sostanze a carattere ionico: acidi, basi e sali, in grado di dissociarsi in ioni negativi e ioni positivi. La reazione di decomposizione dell’elettrolisi è operata dalla corrente elettrica ed ha come conseguenza la trasformazione di energia elettrica in energia chimica.

     Per ottenere il processo di elettrolisi è necessaria una cella elettrolitica, cioè un sistema costituito dal contenitore, da un generatore di corrente elettrica (ad esempio una pila) collegato con due conduttori (elettrodi), uno a carica negativa (anodo) e l’altro a carica positiva (catodo). L’anodo si comporta come un accettore di elettroni e il catodo come un donatore. Per effetto del campo elettrico che si crea tra i due elettrodi al passaggio della corrente, gli ioni della soluzione contenuta nel recipiente migrano verso gli elettrodi di segno opposto. Qui gli ioni perdono la carica attraverso un processo di ossido-riduzione, originando atomi neutri o molecole.

     Il caso più semplice di elettrolisi è quello dei sali allo stato fuso, ad esempio il cloruro di sodio. Quando ci sarò passaggio di corrente nel sale fuso, gli ioni Na+migreranno verso il catodo (negativo) e gli ioni Clmigreranno verso l’anodo (positivo). Ai due elettrodi il processo redox complessivo sarà: 2Na++ 2Cl— > 2Na + Cl2 . L’unica condizione (oltre al passaggio di corrente) è quella di mantenere la temperatura della cella elettrolitica almeno alla temperatura di fusione del sale.

     Se il processo elettrolitico riguarda invece una soluzione acquosa, il processo si complica perché bisogna considerare anche la presenza in soluzione degli ioni H+ (o H3O+per essere più precisi) e OH . Considerando una soluzione acquosa del solito e comunissimo NaCl, al passaggio di corrente elettrica si avrà:

NaCl < — > Na++ Cle, nello stesso tempo, H2O < — > H+ (oppure H3O+) + OH. Dopo le migrazioni già segnalate in precedenza, al catodo potranno a vvenire le riduzioni: Na++ 1e — > Na ; e anche 2H++ 2e— > H2. All’anodo invece le ossidazioni possibili sono: 2Cl— > Cl2+ 2e; ma anche 4OH— >2H2O + O2+ 4e.

Nella realtà, tra i due possibili processi sia all’anodo che al catodo avverrà solo quello che richiede minore energia: 2H++ 2e — > H2 (al catodo); 2Cl— > Cl2+ 2e(all’anodo). Col passare del tempo la concentrazione degli ioni OH in soluzione aumenta, perciò la loro “scarica” può portare alla produzione di ossigeno gassoso.

     Il processo di decomposizione elettrolitica segue le due leggi di Faraday (Michael Faraday, 1791-1867) . La prima legge esprime la proporzionalità tra la quantità di elettricità che passa nella cella elettrolitica e la massa di elettrolita che si decompone agli elettrodi. La seconda legge afferma che in una serie di celle elettrolitiche contenenti soluzioni differenti, le masse dei diversi elementi che si decompongono ai rispettivi elettrodi sono equivalenti. Ad esempio, se una quantità X di elettricità nella cella elettrolitica libera 8,0 g di ossigeno (un grammoequivalente), allora la stessa quantità X di elettricità in un’altra cella potrà liberare 1,008 g di idrogeno (un grammoequivalente).

Crediti immagine: www.bestprodukt.tk .

Numero di ossidazione

oxidation-300x206      Nelle trasformazioni chimiche uno o più elettroni dell’ultimo “guscio” vengono condivisi oppure si spostano da una specie chimica all’altra. Lo spostamento avviene nelle reazioni di ossidoriduzione, in cui la specie (atomo, ione, ione poliatomico) che acquista elettroni si riduce, quella che li cede si ossida.

Il numero di ossidazione è un semplice “strumento” introdotto in chimica per chiarire in che modo si spostano gli elettroni fra gli atomi o gli ioni coinvolti nelle reazioni. Si tratta di un numero positivo, negativo o nullo, che rappresenta la carica elettrica associata a ciascun atomo in qualsiasi composto o ione. Questa carica può essere reale o apparente e viene attribuita in base a due regole generali e alcune regole “pratiche”.

1.      Gli elettroni in comune a due atomi di uno stesso elemento sono assegnati in parti uguali ad entrambi gli atomi.

2.      Gli elettroni in comune tra due atomi di differente elettronegatività, sono attribuiti all’atomo più elettronegativo.

Quali sono le regole pratiche?

a. In ogni composto la somma algebrica dei numeri di ossidazione deve essere zero. La stessa cosa vale per gli elementi allo stato molecolare (N2, O2, S8, P4, H2, …) oppure allo stato atomico (Fe, He, Na, Cu, …).

b. La somma algebrica dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi di uno ione poliatomico è uguale alla carica dello ione (NH4+ ha n. o. +1; SO42- invece ha n. o. –2; ecc.).

c. Uno ione costituito da un solo atomo ha numero di ossidazione uguale alla sua carica (Fe2+, ha n. o. +2; Fe3+, ha n. o. +3; Al3+, ha n. o. +3; ecc.).

d. L’idrogeno ha generalmente numero di ossidazione +1, ma quando è combinato con i metalli e forma gli idruri (NaH, CaH2, KH, …), il suo numero di ossidazione è –1.

e. L’ossigeno ha sempre numero di ossidazione –2, tranne che nei perossidi (ad esempio H2O2, l’acqua ossigenata o perossido di idrogeno) dove ha numero di ossidazione –1.

f. Gli elementi del primo gruppo della Tavola periodica hanno numero di ossidazione +1, quelli del secondo gruppo +2. In genere i metalli hanno numero/i di ossidazione positivo/i.

SO4_oxidation_number-294x300     In base a queste semplici regole, conoscendo la formula di un composto e consultando i possibili numeri di ossidazione degli elementi dalla Tavola periodica (non si chiede di impararli a memoria), si può determinare il n. o. di ogni elemento di quel composto.

Esempi. Qual è il n. o. di Mn, in KMnO4? Sapendo che n. o. di K è +1, di O4 è –2*4= -8, si ha: +1+x-8=0, cioè x = +7.

Qual è il n. o. di Mn in K2MnO4?  +2+x-8=0, cioè x = +6.

Qual è il n. o. di Fe in Fe2O3?  2x-6=0, cioè x = +3.

Qual è il n. o. di S in H2SO4?  +2+x-8=0, da cui x = +6.

Qual è il n. o. di C in CaCO3? +2+x-6=0, da cui x = +4.

A questo punto per te sarà facilissimo definire il numero di ossidazione dell’azoto nei seguenti ossidi: NO, N2O3, NO2, N2O5 .

Molti altri elementi, come l’azoto, hanno più di un numero di ossidazione, a seconda del composto che formano. Una volta determinato il n. o. dell’elemento, verificare dalla Tavola periodica che sia uno di quelli possibili! Altrimenti, ricontrollare i calcoli.

Naturalmente è fondamentale lo studio dal libro di testo, ma può aiutarti anche seguire con attenzione questo breve video (meno di 4 minuti) in inglese:

Video on Assigning Oxidation Numbers

Formazione di ioni


     A parte i gas nobili, tutti gli altri atomi per avere minore energia ed essere più stabili tendono a raggiungere la configurazione elettronica esterna dell’ottetto oppure quella dell’Elio. Gli elementi di uno stesso gruppo hanno la stessa configurazione elettronica esterna. Ad esempio Berillio, Magnesio, Calcio, Stronzio, Bario e Radio hanno tutti due elettroni nel “guscio” elettronico esterno e i loro atomi hanno tutti una bassa energia di ionizzazione, cioè una scarsa forza di attrazione elettrostatica tra nucleo (carico positivamente per la presenza dei protoni) e elettroni esterni (dotati di carica negativa). L’energia di prima ionizzazione di un elemento è quell’energia necessaria per sottrarre ad un atomo l’elettrone più esterno. Questa energia diminuisce quando ci si sposta lungo un gruppo dall’alto in basso e aumenta quando ci spostiamo lungo un periodo, da sinistra a destra.

     Se un atomo nell’orbitale esterno ha 1, 2 o 3 elettroni, per raggiungere la stabilità tenderà a perderli (purché ci sia qualche altro atomo che abbia la possibilità di riceverli!). Invece gli atomi che negli orbitali esterni hanno 5, 6 oppure 7 elettroni, tenderanno ad acquistarne rispettivamente 3, 2 o 1. Nella pratica, la tendenza a perdere o acquistare elettroni si manifesta in due modi: mediante la formazione di ioni oppure con la formazione di legami chimici. Consideriamo il Calcio la cui struttura elettronica è: [Ar]2; cedendo i due elettroni dell’ultimo orbitale la sua configurazione elettronica diventa la stessa dell’Argon [Ar] perciò raggiunge uno stato di bassa reattività. Analogamente faranno tutti gli elementi del II gruppo. Gli atomi degli elementi del I gruppo, avendo un solo elettrone esterno, lo cederanno con una facilità ancora maggiore per raggiungere l’ottetto.

     Ogni atomo, avendo lo stesso numero di protoni (positivi) e di elettroni (negativi) è elettricamente neutro. Perciò nel momento in cui cede uno o più elettroni, nel nucleo ci saranno una o più cariche positive che non saranno bilanciate dalle cariche negative degli elettroni e l’atomo si trasforma in uno ione. Più precisamente, perdendo elettroni rimangono cariche positive in eccesso perciò si trasforma in uno ione positivo: un catione. Ad esempio:

Na → Na+ + 1e  (Na+ è un catione monovalente)

K → K+ + 1e

Ca → Ca++ + 2e  (Ca++, oppure Ca2+, è un catione bivalente)

Mg → Mg++ + 2e

     Gli elementi del I gruppo tendono a dare cationi con una sola carica elettrica (monovalenti), quelli del II gruppo tendono a dare cationi bivalenti e quelli del III gruppo cationi trivalenti. I metalli di transizione invece danno cationi di cui non è facile prevedere la carica. Ad esempio il Ferro può formare cationi bivalenti (Fe++) o trivalenti (Fe+++), lo Stagno può formarli bivalenti (Sn++) o tetravalenti (Sn4+).

Gli elementi dei gruppi V, VI e VII invece tendono ad acquistare elettroni e a trasformarsi in ioni negativi: anioni. Consideriamo alcuni esempi.

F + 1e → F  (anione monovalente)

O + 2e → O– –  (anione bivalente)

P + 3e → P– – –  oppure P3 – (anione trivalente)

La trasformazione di un atomo in uno ione (catione o anione) ha alcune conseguenze importanti, in particolare determina:

  1. una notevole riduzione dell’energia e perciò della reattività, per il raggiungimento della configurazione esterna dell’ottetto;
  2. una importante variazione del volume: quando da un atomo si forma un catione, il raggio e il volume atomico diminuiscono, quando si forma un anione il raggio e il volume atomico aumentano;
  3. la trasformazione di una specie chimica elettricamente neutra in un’altra dotata di cariche elettriche positive (cationi) o negative (anioni).

I raggi cosmici

  

Abbiamo già parlato di radiazioni elettromagnetiche. Tra queste ci sono le radiazioni luminose con una lunghezza d’onda compresa tra 0,4 e 0,7 μm (micrometri) che, pur essendo solo una piccola parte delle radiazioni totali, sono fondamentali per la vita. Sulla Terra però arriva un’altra tipologia di raggi, detti "raggi cosmici" o "radiazione cosmica", ad alta energia, già ipotizzati da Victor Franz Hess (1883-1964) nell’estate del 1912 quando, facendo salire elettroscopi ad alta quota, fino a 5000 m con un pallone aerostatico, notò una ionizzazione spontanea crescente dei gas all’aumentare della distanza dalla superficie terrestre. Hess scrisse che ciò si poteva spiegare "supponendo che una radiazione di grandissimo potere penetrante entri dall’alto nella nostra atmosfera". Successivamente un altro fisico, Werner Kolhörster (1887-1946) ripeté gli esperimenti di Hess raggiungendo altitudini maggiori e ottenne gli stessi risultati. L’espressione "raggi cosmici" che indica questi tipi di radiazioni venne coniata dal fisico statunitense Robert Andrews Millikan (1868-1953). L’idea di Hess che la ionizzazione fosse prodotta da raggi provenienti dallo spazio ottenne la prova decisiva proprio da Millikan con un gruppo di esperimenti realizzati tra il 1923 e il 1926. Secondo il fisico italiano Bruno Rossi (1905-1993), i raggi cosmici sono "il grido di nascita degli atomi che venivano creati continuamente nello spazio[1]". Venne poi affrontato il problema della costituzione e del potere penetrante di questi raggi: alcuni di essi riuscivano ad attraversare uno spessore di 1 metro di piombo! Per questo dovevano essere costituiti da energie molto elevate.

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